Chi in testa vede o ha già visto spuntare delle penne grigie o ha già completato la muta, normalmente viene percorso da un brivido alla schiena, al sentire nominare la Kawasaki 750 H2, anche nota come Mach IV. Non fu la prima maxi dell'era "moderna", palma che probabilmente spetta alla Honda CB 750 Four, ma fu quasi certamente una delle moto più adrenaliniche del periodo. Il compito non era facile perché, al tempo la concorrenza era molto aggressiva, per certi versi più ancora di oggi, dove un maggior numeri di segmenti di mercato e cilindrate differenti hanno frazionato parecchio l'offerta.
Il contesto storico era quello a cavallo tra la fine degli anni '60 e l'inizio degli anni '70. La grande crisi petrolifera era ben di là da venire e le case giapponesi miravano alla supremazia sui concorrenti europei ed americani elaborando gli stilemi già esistenti, ma in chiave di maxi-cubature e con motori plurifrazionati. Ad Akashi, freschi di acquisizione della Meguro, la decana di tutte le case costruttrici di moto del Sol Levante, decisero come sempre di puntare al bersaglio grosso.
Lo fecero sparando ben due cartucce per certi versi simili tra loro, un qualcosa che 50 anni fa, quando il concetto di efficienza ed ottimizzazione nell'industria era molto diverso da oggi, era ampiamente consentito. Se infatti nell'R&D di Kawasaki ci fosse stato un ring di pugilato, ad un angolo avremmo trovato la nascente 900 Z1, quadricilindrica a 4 tempi e massima espressione tecnologica della casa in verde e nell'altro proprio la altrettanto neonata e "nostra" 750 H2.
Se quest'ultima sigla vi è in qualche modo familiare, non vi state sbagliando. A 40 anni di distanza dallo stop della produzione della 750, la casa di Akashi l'ha rispolverata, nel 2015, per dare vita ad una famiglia di moto senza compromessi, esattamente come l'antesignana. Per farvene una idea leggete la nostra prova della Kawasaki Ninja H2 SX SE, che si potrebbe definire quasi la più compassata della "nidiata" delle nuove H2.
Tornando alla primigenia Mach IV, la moto era una tre cilindri 750 a due tempi, un qualcosa che oggi farebbe azzerare la saliva di molti appassionati. A 50 anni di distanza dal suo lancio in realtà, i valori di potenza e coppia del suo motore sono assimilabili a quelli di una tranquilla naked 650-700 a 4 tempi quale potrebbe essere, per restare all'interno del marchio in verde, la Z 650.
La scelta del frazionamento della Kawasaki 750 H2 aveva, come ragione principale, il fatto che il brand di Akashi voleva qualcosa di realmente eclatante rispetto alla pur ottima 500 H1 Mach III, anch'essa tricilindrica due tempi, ma di mezzo litro di cubatura. Altro fattore fondamentale era la corsa alle performance assolute, visto che tutti i costruttori più importanti erano al lavoro sulle proprie future maxi.
All'epoca non esistevano le denominazioni naked, supernaked ecc e queste moto venivano catalogate come granturismo, una denominazione molto in voga anche in ambito automobilistico. Non a caso, un'altra protagonista di quel segmento di mercato, anch'essa a tre cilindri, 750 ed a due tempi, quindi diretta concorrente della Kawasaki 750 H2, era la Suzuki GT 750.
La Kawasaki 750 H2 sfruttava l'esperienza dell'azienda sui motori a 2 tempi maturata negli anni precedenti e richiese poco tempo per essere sviluppata, anche dal momento che fu attinto a piene mani dal know-how che aveva portato, due anni prima, a realizzare la 500 H1 (Mach III). La rapidità con cui il progetto della moto di Akashi fu portato a compimento tornò doppiamente utile dal momento che, nel contempo, la 900 Z1 procedeva a rilento nel suo processo di avvicinamento alla messa in vendita.
Tutto questo accadeva mentre la Honda 750 Four mieteva successi di vendite sia negli USA che in Europa, anche se si trovò ben presto a fare i conti con la nuova nata, che faceva delle performance la sua principale arma di seduzione. I motori a 4 tempi stavano facendo passi da gigante, ma il 2 tempi consentiva ancora un importante vantaggio, anche a fronte di un minore frazionamento e, ultimo ma non meno importante, era assai più economico da produrre.
La Kawasaki 750 H2 partiva dunque con il vantaggio dei numeri, rispetto alla sua diretta rivale, forte di 7 cavalli in più (74 contro 67), ma soprattuto di ben 17 Nm di coppia (77 invece di 60), ottenuti oltretutto ad un regime inferiore (6500 giri contro 7000). L'incremento di potenza (14 cv, vale a dire il 25%) rispetto alla 500 H1, con la quale condivideva il telaio, era più che sufficiente a mettere in crisi un comparto che già di suo non era propriamente un riferimento dell'epoca.
Questo contribuì a creare, per la moto di Akashi, il mito della moto "bestiale" che ancora oggi riecheggia, mentre altri affermano che telaio e motore non erano semplicemente elementi equilibrati tra loro a livello di resa. Da qualunque punto di vista la si voglia guardare, la scelta di Kawasaki si rivelò comunque commercialmente azzeccata, tanto che Suzuki fece altrettanto, contemporaneamente, con la GT 750, anch'essa tricilindrica 2 tempi, che però pagava dazio alla H2 in termini di performance.
Alla prima serie del 1971 e che, pertanto, compie mezzo secolo proprio nell'anno in corso, ne seguì una seconda due anni più tardi, Kawasaki 750 H2A, dove la moto restò sostanzialmente immutata. Le modifiche, volte ad irrobustire in parte il telaio ed a migliorare la trazione per mezzo dell'allungamento del passo (a scapito di un po' di maneggevolezza), arrivarono con la terza serie, la 750 H2B del 1974.
Questa versione presentava anche un motore "ingentilito". Fu rivisto il diagramma di distribuzione e migliorata parzialmente l'erogazione, che divenne più morbida, al prezzo di 3 cv di potenza massima, che scese a quota 71. Solo un anno più tardi, nel 1975, fu la volta della quarta ed ultima serie, la 750 H2C che, non differiva sostanzialmente dalla precedente, se non per la livrea.
Il tempo però, per la Kawasaki 750 H2, era ormai finito. Già nel 1972 infatti, la casa di Akashi aveva rilasciato anche la Z1 900, la quadricilindrica a quattro tempi che originariamente si sarebbe dovuta da subito contrapporre alla 750 Four di Honda. La plurifrazionata 900 in verde era la top di gamma designata del marchio, e non c'era spazio per due primedonne.
In realtà, dalla 750 H2 sarebbe dovuta nascere una ulteriore evoluzione, quella che aveva come sigla interna di progetto "0280". Si trattava di una tre cilindri, sempre a due tempi, di cilindrata maggiorata a 900 cc e che, secondo alcuni, nel momento in cui fosse arrivata sul mercato, si sarebbe chiamata 900 H3. Questo però non avvenne mai, perché il marchio giapponese si concentrò sui motori a 4 tempi e lasciò ai due tempi le piccole cilindrate (tipicamente fino a 400 cc).
Oggi una Kawasaki 750 H2 in perfetto stato ha un valore che oscilla tra i 15 mila ed i 20 Euro. Come sempre, quando si ha a che fare con esemplari così datati, occorre prestare particolare attenzione alle parti in gomma (tubi benzina e liquidi in generale), oltre che ai paraoli. A livello prettamente meccanico, il suo motore non è mai stato afflitto da problemi particolari, eccettuata qualche piccola noia al cambio. Da controllare invece la parte inferiore degli scarichi, particolarmente soggetta a subire ruggine.